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La Varzo di oggi e quella dei "miei" ricordi

Ora c’è una piazza davanti a noi.

E’ asfaltata, ci sono le tracce dei parcheggi e le macchie di gasolio.

I sassi sono scomparsi così come i tipici lastroni di pietra che si snodavano lungo le vie, al centro, per facilitare lo scioglimento della neve.

L’asfalto è grigio e grigio è anche il muro della Chiesa, ma quest’ultimo ti comunica qualcosa: sembra abbia tante storie da raccontare. Dall’alto veglia il campanile: io non l’ho più sentito ma un tempo batteva le ore e al sabato al tramonto c’era un vero e proprio concerto. Prima di tutto Lilì Marlene, poi Papaveri e papere, Vola Colomba, Vecchio scarpone e così via e il suo suono si diffondeva nella valle fra le case raggiungendo anche le più lontane.

ProlocoValleDivedro (foto STUDIO RDS)

Ora la piazza è abitata: ci sono le auto, silenziose, quasi a disagio di trovarsi lì.

La piazza è sempre stata silenziosa, ma di un silenzio che fremeva e vibrava sino a terra, complice il venticello, o “l’arietta”come si chiamava, dolce e gagliardo, che avvolgeva e non faceva mai sentire la stanchezza. Quel vento puro che scende dalle vette sempre innevate che abbraccia gli uomini, le loro case e le vie fin negli angoli più nascosti, quel vento mai severo, mai crudele ma ricco come un adolescente che si apre alla vita.

Intorno le case, un tempo solo di pietra ora talvolta colorate. A sinistra si intravede la casa della “levatrice”, persona assai importante e sempre disponibile.

Le famiglie non erano molte, ma i bambini nascevano anche nelle case più sperdute.

Talvolta le mamme erano ospitate nella casa della levatrice. Quando il loro trasporto non era possibile, con qualunque tempo, di giorno, di notte, senza telefoni, senza strade illuminate, qualche volta con l’aiuto del mulo, la levatrice andava ovunque e i bimbi nascevano.

Qualche volta si incontrava la “levatrice” di ritorno, stanca, con un enorme borsone: certe volte il bimbo era nato e lei lo raccontava serena, altre volte invece aveva solo fatto una visita preliminare, un po’ preoccupata se c’era solo il futuro papà ad aiutare la futura mamma.

Per lui c’erano tantissime raccomandazioni.

La “levatrice” aveva quattro bambini e diceva che “andava a casa a vedere se non era successo niente” e spesso faceva anche da - pronto soccorso - ai guai dei bambini, insieme al farmacista che però non era facilmente raggiungibile.

E’ strano: a sinistra della Chiesa i bambini nascevano, a destra, nella grande villa Alvazzi Dresco, ancora oggi Scuola Materna, cominciavano il loro cammino scolastico e a fianco c’era un’altra grande villa, la villa Bono: era per i nonni. Perché nonni e bimbi non si dimenticassero a vicenda, nell’attesa che i secondi si sostituissero ai primi.

Le due grandi torri del Cistella (sullo sfondo nella foto), dove i grandi rapaci ti sfiorano i capelli e ti costringono continuamente a cercare riparo sotto gli spuntoni di roccia, vegliano sui piccoli e li attendono a percorrere le vie scoscese che le circondano.

Le piante centenarie si specchiano nei vetri dei finestroni, non più anonimi davanti agli spessi tendoni grigi ma rallegrati dalle “opere d’arte” dei bambini.

Mi domando anche quanti bambini riuscivano a frequentare la scuola materna. Anche senza pensare all’inverno, quando la neve si impadronisce per mesi interi del paese, Varzo si articola in una miriade di frazioni sparse su tutta la vallate. Come era possibile per i piccoli raggiungere la scuola? Forse con il carretto e l’asino o il mulo che tutti avevano, a quei tempi.

Ed anche questo racconto è giunto al termine, grazie per l'attenzione che ci hai dedicato, speriamo che ti sia piaciuto.

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